Xin chào, Vietnam



Giorno 7

Ci svegliamo alle 8:45. La solita omelette mi aspetta per colazione, con un buon caffè vietnamita con latte condensato e del succo d’arancia. Lasciamo le camere, un po’ intristiti, e saliamo sul pulmino dove la guida ci aspetta per le ultime due tappe prima di ritornare a Ho Chi Minh City. Andremo a vedere delle rovine a My Son e infine Monkey Mountain, appena fuori Da Nang.
Ci mettiamo circa un’ora ad arrivare a My Son, la strada è poco trafficata anche se l’autista non manca di ricordarsi di suonare il clacson agli scooter che noncuranti stanno davanti a lui. La guida ci racconta che le rovine sono state parzialmente distrutte dalla guerra, erano state usate come nascondiglio dai viet cong, e gli americani le hanno bombardate senza ritegno. Il sito è nella natura, diviso in gruppi di strutture. Parcheggiato il pulmino prendiamo un piccolo bus aperto ai lati con altri turisti che ci porta verso il primo gruppo di rovine. Ci sono diversi templi, quasi totalmente distrutti, ma in alcuni si può ancora entrare. Ci avvisano di non andare fuori dal sentiero marcato perché la nostra permanenza potrebbe diventare permanente, tutta l’area era coperta di mine per rendere più difficile l’invasione americana.

La civiltà che ha costruito questi templi è più antica del popolo vietnamita, e ci sono alcuni misteri attorno a queste rovine. Uno di questi è come siano state costruite. I mattoni non hanno calce o altro per tenerli assieme, sembrano solo appoggiati l’uno sull’altro, eppure sono sopravvissuti centinaia di anni alle intemperie tropicali senza maggiori danni. La distruzione è stata causata principalmente dai bombardamenti, e si può notare che le zone che hanno cercato di restaurare i vari archeologi europei e americani sono più usurate che non le costruzioni originali. Nessun metodo di costruzione tra quelli provati è riuscito a sostenere la prova del vento e dei monsoni. In uno dei siti uno dei templi è stato coperto da una struttura per cercare di salvaguardarlo meglio dopo che una bomba era esplosa vicino, ma il risultato è che ha iniziato a cedere. Da questo gli archeologi hanno capito che la pioggia e il vento non rovinano queste costruzioni, anzi, le mantengono solide. La pietra che le compone è porosa, e grazie all’acqua che filtra quando piove si crea un vuoto all’interno che tiene le pietre assieme, con una specie di risucchio. Quando la pioggia non ci è più caduta sopra per la tettoia che hanno costruito al fine di proteggerla, ha iniziato a crollare.
È strano pensare come a volte cercare di salvare qualcosa sia la causa della sua distruzione. Il popolo che ha costruito questi templi conosceva il loro territorio meglio di qualunque studioso di oggi, ed è stato in grado di costruire qualcosa che è durato centinaia di anni prima che qualche saccente occidentale lo abbia distrutto cercando di preservarlo.
Mentre camminiamo tra le rovine, Leah mi dice che non sta molto bene. È tutto il giorno che si sente debole, così cerchiamo di non stare sotto il sole e di limitare la camminata il più possibile.
Torniamo verso il pulmino che ormai è ora di pranzo, e mangiamo qualcosa nel ristorante all’entrata del sito turistico.
Il pasto non è nulla di grandioso, hanno poche opzioni visto che è periodo di festa e ci sono pochi turisti, mi accontento di un riso con carne di maiale.
Ci rimettiamo in viaggio verso Monkey Mountain. È una montagna ribattezzata così in quanto casa di diverse scimmie, famose per stare tra le persone senza problemi anche in zone affollate, come al tempio alla base della montagna dove andremo.
Già dalla città vediamo una statua di un buddha femmina immensa che governa il lato della montagna rivolto verso di noi. Da Nang è una città di mare, di allunga su un golfo al cui estremo c’è questa montagna, e la buddha sembra salutare chi arriva e chi viene con un sorriso e una benedizione.

Parcheggiamo e siamo all’entrata del tempio. Ci sono diversi alberi bonsai all’esterno, nessuna scimmia in vista per il momento. Prima di entrare nel tempio ci fanno mettere una specie di gonna che si avvolge con uno strap in vita per coprire i pantaloni corti e ci fanno togliere le scarpe. Il tempio è ampio, diverse persone stanno pregando. Noi facciamo qualche foto in silenzio e torniamo fuori. Poco distante c’è la base della buddha, che vista da questa distanza è enorme. Altre foto e poi sentiamo un po’ di voci di turisti agitati, un gruppo di scimmie sono tra loro. Ci avviciniamo e vediamo una decina di piccole scimmie che accettano cibo dai turisti per poi scappare via dalle altre. Alcune saltano tra gli alberi, le più giovani a volte cadono. Sono molto intelligenti. Sanno che nei sacchetti ci sono patatine, e sembra conoscano le confezioni a memoria. Un turista distratto si lascia rubare un pacchetto chiuso e dopo essersi allontanate a sufficienza lo aprono e mangiano, proprio come farebbe una persona.
Facciamo molte foto alle scimmie, Leah riesce ad avvicinarle di più senza farle fuggire e le vengono dei begli scatti. Un gruppo di turisti ha accerchiato un cucciolo, che viene recuperato dalla mamma con un ringhio poco dopo.

Io e David fantastichiamo sul portarci a casa una scimmia, ma non riusciamo neanche a toccarne una. Sconfitti, ritorniamo sul pulmino verso la città. Faremo una tappa a vedere il ponte a forma di drago al tramonto a Da Nang prima di andare in aeroporto.
Il paesaggio è molto bello. Guardiamo il ponte da un piccolo pontile pieno di lucchetti come ponte Vecchio a Firenze. È strano pensare che alcune usanze siano le stesse a così tanta distanza.

Ci fermiamo a bere un ultimo caffè vietnamita a Da Nang e poco dopo siamo in aeroporto.
Salutiamo la nostra guida e l’autista che sono stati con noi da tre giorni e attraversiamo i controlli di sicurezza. Quando siamo dentro a Leah torna un po’ di fastidio allo stomaco, vado alla ricerca di un posto che faccia tè caldo sperando che la faccia stare meglio. Dopo averglielo portato mi accorgo di essere affamato, e così prendo qualcosa da mangiare, pensando anche che quando arriveremo a Ho Chi Minh molto probabilmente non mangeremo nulla e andremo direttamente a vedere i fuochi artificiali a mezzanotte.
Il volo è tranquillo, continuo a leggere Zafon. Mi sorprende come riesca a tenermi interessato e a tenere la mia curiosità accesa, devo riconoscere che è davvero un bravo scrittore. I suoi personaggi sono convincenti e mai noiosi.
Prendiamo un taxi dall’aeroporto e siamo a casa. La mamma di Minh è stata avvisata del mal di pancia di Leah e ha preparato del brodo di pollo e degli spaghetti di riso. Leah ne mangia un po’ e si sente meglio, verso le 23:45 usciamo e andiamo a vedere i fuochi artificiali dal parco sotto al grattacielo altissimo dove abbiamo fatto aperitivo.
Decidiamo di andare a piedi, dobbiamo solo attraversare una strada che normalmente è molto trafficata, ma siccome quasi tutta la città è a vedere i fuochi la troviamo quasi vuota. Non appena siamo nelle vicinanze del parco la folla ci accoglie. Non è una folla eccessiva, molti hanno già preso posto con teli nel parco per accaparrarsi i posti migliori. Riusciamo a trovare un piccolo spiazzo d’erba e ci sediamo. I fuochi iniziano puntuali, sia dal parco che dal grattacielo. A differenza dei fuochi artificiali a cui sono abituato, non c’è nessuna musica o ritmo che li guida, solo luci e botti. Lo spettacolo è bello, ma nulla di straordinario. Alcuni fuochi scoppiano proprio sopra di noi, e a volte alcuni pezzi ancora infuocati cadono tra le persone, ma non succede nulla di male.

Al termine dello spettacolo Leah mi dice che le fa male la pancia, e torniamo a casa. Io sono molto stanco, ma lo stomaco di Leah non le dà tregua, e fino alle 2 rimaniamo svegli, finché finalmente lei non si addormenta e riesco a prendere sonno anche io.




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